2011-06 "Per difenderci" - 39° Parallelo

Ebbene lo confesso: ho sempre votato, ho sempre fatto il bravo cittadino, dicendo la mia anche sui quesiti referendari. Su tutti, proprio tutti, anche quando nel 1991 Craxi ci invitava ad andare al mare o la Chiesa faceva capire ai suoi fedeli che la consultazione popolare del 2005 sulla fecondazione assistita era inutile. Era già tutto deciso: perché andare a votare? Ci sono andato anche quando i radicali hanno svilito questo bellissimo strumento costituzionale chiamandoci alle urne per decine di quesiti quasi tutti inutili. Sono andato a votare per una serie di motivazioni personali e civili, anche quando ci hanno consultato per l’abolizione del Ministero dell’Agricoltura o per il finanziamento pubblico ai partiti, sapendo benissimo che alcune norme sarebbero state reintrodotte con un nome leggermente diverso (grandezza della lingua italiana: Il Ministero è diventato delle Politiche Agricole e i soldi ai partiti son diventati Rimborsi Elettorali). Una serie di ragioni valide per recarsi ogni volta alle urne, ma una su tutte: la delega che abbiamo concesso ai nostri governanti non può essere totale. La consultazione popolare è un piccolo contrappeso previsto dalla nostra Costituzione per bloccare un’eventuale maggioranza arrogante e sprezzante delle regole fondamentali, che potrebbe legiferare in un modo così discutibile da meritare una conferma o un’abrogazione di tutti noi. Ma non è secondaria la voglia di votare quando un politico invita alla diserzione: cercare di non raggiungere il quorum sembra l’ultima ma la più pericolosa difesa di una casta che non vuole mettersi in discussione. Un’operazione quasi disperata di chi in politica non ha più niente da dire, se non grida in tv e totale occupazione di ogni poltrona disponibile. Come se i nostri governanti non avessero argomenti, come se entrare nel merito delle questioni fosse vietato o comunque una fastidiosa perdita di tempo. Ecco perché andare a votare diventa una risposta alla loro necessità di autarchia decisionale, dove molte leggi hanno un fine personalistico, una dimensione lobbistica o una vendetta trasversale.

La sorprendente vittoria alle recenti elezioni Amministrative del centro sinistra e soprattutto di alcuni candidati sindaco fuori dagli schemi, oltre alla sentenza della Cassazione che ha confermato il referendum sul nucleare, sono un buon viatico per l’appuntamento referendario del 12 e 13 giugno. Dopo molti anni c’è la concreta possibilità che venga superato il quorum necessario affinché una consultazione sia valida. L’ultima volta che si recarono alle urne almeno il 50% degli elettori (più uno, eri tu) si votava sulla liberalizzazione delle licenze commerciali e sugli orari di chiusura e apertura degli stessi negozi. Era giugno 1995. Ma oggi si sta discutendo di tre cose essenziali, non della saracinesca di un negozio: abrogando la legge ad personam sul “Legittimo impedimento” si sancisce ancora una volta la certezza di essere tutti uguali nei diritti e nei doveri, sia verso la legge che nei confronti degli altri cittadini. E’ una legge che va cancellata soprattutto nel suo valore simbolico, al di là degli aspetti pratici e delle manipolazioni da azzeccagarbugli dei legali del nostro premier. Quello che è successo in Italia negli ultimi anni non dovrebbe mai più accadere: bloccare un’intera nazione, nello sviluppo economico, civile e sociale intorno alle ricchezze e ai guai giudiziario di una sola persona.

Il quesito sul nucleare è qualcosa di aberrante se visto dal punto di vista della democrazia: già nel 1987 il popolo italiano dichiarò, con una percentuale pari all’80%, di non volere l’energia atomica. L’attuale governo di centro destra ha finto di dimenticare quella consultazione ed ha proceduto a nuove contrattazioni con i francesi per la costruzione di nuove centrali nucleari, mentre il mondo intero cerca il modo migliore per uscirne, e soprattutto tenta di trovare nuove soluzioni energetiche. Un tempo, neanche tanto lontano, l’Italia era una nazione creativa e piena di risorse intellettuali, oggi non abbiamo la più piccola idea da dove far iniziare una nuova era energetica, siamo ormai un popolo di vecchi che si adatta a quel che passa il convento. Votare SI significa tentare di dare una sterzata.

Infine la legge sulla privatizzazione dell’acqua tocca uno di quei principi fondamentali che non dovrebbero mai essere messi in discussione: l’acqua è un bene di tutti che va gestito da enti pubblici senza fini di lucro, affinché tutti possano godere di un bene essenziale alla vita. Si dice che fra qualche decennio l’acqua sarà gestita come il petrolio, con oscillazioni di prezzo giornaliere e difficoltà di approvvigionamento totale: quella sarebbe la fine della nostra epoca. Per tentare di evitarlo, dobbiamo andare a votare. Nell’interesse delle future generazioni dobbiamo votare SI.

39° Parallelo – Giugno 2011

Alfredo De Giuseppe

 

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