13 - Voti senza frontiere del 2021-05-15

Di  "Salento Futuro"

Sono nato nel 1958. Ho conosciuto anche un altro Salento. Il primo vivido ricordo è del 1962: il funerale della mia giovane madre, vestita di bianco. Poi nonne e zie mi hanno immerso in un mondo contadino favolistico e un padre che, da buon impiegato statale, mi regalava palloni di cuoio e libri con immagini di tigri ed eroi. Conservo ancora la versione del libro “Cuore” di De Amicis, con annessi dischi 45 giri. Mia nonna aveva i servizi igienici distanti una trentina di metri dall’abitazione, fino ai dieci anni facevo il bagno dentro una fredda tinozza di rame, fra saponi improvvisati, imprecazioni generali e qualche risata.

Quel Salento era terra di emigrazione vera, gente che partiva per Belgio, Svizzera e Germania; le loro mogli vivevano questa situazione come una vedovanza, tristi e contrite nel loro dolore. C’era la Chiesa come punto di riferimento e l’immancabile sezione della Democrazia Cristiana, dove c’era la Tv e si giocava a carte, fumando sigari e sigarette dei peggiori tabacchi.  Ho trascorso molte ore sia in Chiesa che nella sezione Dc a studiare quella fauna umana che già allora mi incuriosiva e mi divertiva. (L’ipersensibilità è un sedimento che parte da lontano). L’unico esercizio commerciale era una rivendita di tabacchi che accidentalmente aveva anche un po’ di pane, farina e una mortadella. Anche quello era un luogo di ritrovo, dove c’era un confronto più laico rispetto alla chiesa e al partito. Lì si discuteva anche di politica, sentii nominare Nenni e Togliatti: discutevano animatamente soprattutto i reduci delle due guerre mondiali, che cercavano di giustificare le loro esistenze. Lì accompagnavo il mio bisnonno che era nato nel 1872 ed era anziano per entrambe le guerre e si permetteva il lusso di parlare male del Re e di Mussolini. Morì nel 1972 alla soglia dei 100 anni: da lui, capomastro muratore, ho appreso come sono state costruite le ville signorili di Leuca e Tricase Porto. Da Tuglie aveva traferito la famiglia a Tricase perché al lavoro ci andava solo a piedi e Tuglie era davvero lontana. In quel Salento assolato e dimenticato, pochi erano coscienti, forse ci può aiutare solo la poesia del miglior Bodini: “La luce è un’altra bestia sulle case, da aggiungere al bestiario, la cui favola sa di sputi e minacce, il geco, la tarantola, l’aggressiva cicala, la civetta”.

Ho visto un altro Salento, quello delle osterie e dell’acqua sporca raccolta con un piccolo camioncino, dei ciechi veggenti, dei pappagalli parlanti e delle merende sapientemente costruite con i resti del giorno prima. Andavo a scuola sempre a piedi, possibilmente con i compagni di giochi, il maestro usava ancora la riga di legno per punire i ragazzi che studiavano poco e le partite di calcio sulla piazzetta, senza molte regole, iniziavano nel primo pomeriggio per finire al calar del sole. Le donne in chiesa col fazzoletto nero, il sacerdote come sommo giudice sociale, le sintesi domenicali delle partite in bianco e nero, le prime associazioni sportive e la FIAT  per tutti.

Poi all’improvviso, io ancora ragazzo inconsapevole, la speculazione edilizia, le grandi lottizzazioni, la spartizione delle ricchezze, compensata da un ascensore sociale che sembrava funzionare: il figlio del contadino divenne finalmente medico e il figlio dell’artigiano impiegato para-statale, magari all’Italsider, mentre le classi più povere producevano scarpe e vestiti a basso costo.
Ma ancora ho visto, allora sì consapevole, un po’ attore convinto, un po’ osservatore scettico, il Salento divenire glamour: le masserie ristrutturate dai Vip, i festival canori, la pizzica, i cocktail-bar e il turismo di massa. Sinceramente a guardarla oggi, quest’ultima epoca è quella che mi è sembrata la meno vera di tutte, la più mascherata, la più lontana dalla nostra millenaria cultura (e tutta la polvere nascosta sotto il tappeto).

In ogni caso mai ho scritto o detto che sessanta anni fa si vivesse meglio di oggi. Molte battaglie andavano fatte e alcune sono state vinte: le donne per esempio non potevano avere una vita sociale, la classe media era inesistente, i poveri erano vicini alla schiavitù, la scolarizzazione di massa una lontana chimera. L’evoluzione è stata rapida e a volte confusa, eppure necessaria. 
Ora si parla di “Salento Futuro”, e sento di nuove superstrade (abbiamo il più alto indice italiano di asfalto rispetto alla superficie totale e alla popolazione), sento di un’ecologia basata solo sulle parole, senza mai una proposta concreta che sia davvero realizzabile, sento di nuovo la mega distanza dai nostri naturali confini, il Mediterraneo tutto, l’Albania, il Montenegro, la Grecia, nonostante gli sforzi di Associazioni che non riescono a penetrare trasversalmente il tessuto sociale. I porti di Taranto e Brindisi praticamente fermi, l’assalto ancora persistente alle poche risorse naturali ancora presenti. Nel frattempo ci sono misure economiche dell’Onu, dell’Unione Europea, dell’Italia e della Regione, Recovery Fund, ristori e ristorni, ma ho l’impressione che al di là dell’assalto alla diligenza, si vada ad orecchio, si tenda a ripercorrere strade già visitate negli ultimi decenni, come se la nostra Storia, antica e recente, non contasse, come fossilizzati nelle dinamiche della nostalgia o del cupio dissolvi.

il Volantino, 15 maggio 2021

Alfredo De Giuseppe

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