2021-10-01 "Ciao Don Eugenio, prete rock" - il Gallo n.15

Don Eugenio Licchetta era un uomo contrastato, complesso. Non era bianco o nero, aveva molte sfumature. E forse a lui non piacerebbe oggi che qualcuno le sottolineasse, però fra le tante ne aveva una che in questa occasione mi torna utile: non le mandava a dire, le scriveva con forza e  le urlava, quando ci credeva. Era un sacerdote atipico, fermo nella sua Caprarica, come i vecchi parroci di una volta, che intorno al proprio paesello costruivano tutto, bontà e fermezza, case e centri culturali, oratori e ospizi, ma anche inimicizie e clientele. Sentiva la necessità di avere amici, questo è indubbio. Voleva gli amici del popolo, ma anche i politici potenti, gli imprenditori più noti. Li voleva alla sua tavola, voleva ridere e scherzare, ma poi ad un certo punto, alzare la voce, facendo finta di concentrarsi, e chiedere rispetto per il lavoro, amare i poveri, dare un posto a quelli che a lui si rivolgevano.

Era un prete rock, per i tempi che furono, ma certamente combattuto, prima con se stesso e poi con i suoi diretti superiori.  Amava organizzare presso la sua parrocchia incontri con i preti operai del nord, con i teologi più avanzati del Concilio Vaticano II, amava Davide Turoldo, amava Italo Mancini e poi il giorno dopo era a casa di Antonio Filograna o del nipote Adelchi, a chiedere, durante una lauta cena, un contributo per un qualcosa da realizzare, per il convento albanese, oppure il posto sicuro per il figlio di un amico. A quel punto il suo intimo contrasto si faceva più evidente, cercava di capire se lui fosse uno o trino, se avesse un’intrinseca coerenza o una latente dissociazione. Voleva essere solidale col mondo ma accettava i compromessi con gli attori politici del tempo, quasi tutti democristiani, ai quali non risparmiava invettive orali e scritte. E quando scriveva era lungo, prolisso e complicato. Perché la sua idea non poteva estrinsecarla al massimo livello di chiarezza, avrebbe generato uno scandalo continuo. Lo temevano quasi tutti quei politici e quei prelati, perché con tutti era in una specie di intimità costante, li chiamava a qualsiasi ora, se non rispondevano prendeva la sua auto e ci arrivava, fosse Tricase, Lecce o Roma. Lui amava insegnare, e dai ragazzi traeva linfa vitale: quando andò in pensione non nascondeva il suo profondo malessere per quell’assenza. Una volta mi disse: e ora che faccio? E io risposi: forse potresti fare il prete. E’ un po’ tardi, disse, scoppiando in una di quelle fragorose risate che formavano la sua bellissima  espressione.

Io, don Eugenio, l’amico Eugenio che con me non parlava mai di Dio, l’ho conosciuto in più versioni . Prima come insegnante al Liceo Scientifico, dove entrava in aula con un malloppo di giornali sottobraccio per  commentare le notizie del giorno. A volte si arrabbiava, ma il più delle volte rifletteva insieme a noi intorno a quella società di metà anni settanta che era turbolenta, irrequieta, mossa dalla voglia di cambiare qualcosa. Poi, quando ho finito il Liceo, l’ho vissuto come amico di mio padre che lavorava nella segreteria dello Stampacchia. Da quel telefono partivano telefonate internazionali per organizzare viaggi a Bruxelles prima e in giro per l’Europa poi, convinto che solo vedendo e facendo vedere anche ai suoi amici le altre culture, ci si poteva evolvere, uscire dall’atavica povertà del Sud. Partivano in bus le persone che contavano, i suoi amici, ma anche quelli con un minimo di spirito creativo. Poi infine l’ho vissuto da imprenditore. Ebbi la disavventura di aprire il primo supermercato sulla strada che portava alla sua parrocchia, che lui percorreva almeno venti volte al giorno, per andare al Comune, al Bar di Michelino Dell’Abate, al giornalaio e forse anche al Convento dei Domenicani, dove ogni domenica celebrava una Messa. Si fermava spesso e volentieri, sempre con la stessa richiesta: mi serve una busta con due chili di pasta e due scatole di pelati. Cercavo di resistere, ma sapevo che non erano per lui, quindi imbustavo e portavo nella sua 500. Ogni volta diceva: poi ti pago e ogni volta era un modo per ridere: il Vescovo, il Vescovo tiene i soldi!!!

Non l’ho conosciuto solo in questi suoi ultimi anni, trascorsi a letto con un Alzheimer devastante. Ma prima, qualche anno prima abbiamo fatto in tempo a confrontarci su tante cose, sul rapporto con i suoi parrocchiani, con le sue e le mie scelte di vita. Se non lo vedevo per un po’, mi arrivava puntualmente un pizzino: stasera passa. E trovavo una pignatta di fagioli già pronta, cotta al focolare, o un piatto di orecchiette con le polpettine da portare a casa dentro una ceramica antica, una bottiglia di vino, un qualcosa di speciale confezionato da un suo parrocchiano. Poi c’erano le serate con gli amici, che per lui erano soprattutto quelli con i quali poteva parlare in libertà, scherzare di sé e degli altri, un’autoironia fra il politichese e la santità, senza mai offendere nessuno che non fosse presente. Tonio Sabato, Enzo Za, Dante De Carlo, Tonio Serrano, Nino Crisostomo, Goffredo Ciullo sapevano come stare bene con lui e io di tanto in tanto mi intrufolavo, pur mantenendo un distacco da osservatore. Se veniva fuori una lunga discussione sulla politica era scontato che il giorno dopo ricevessi la sua telefonata per sapere la mia opinione, per parlare ancora di più in libertà. Sapeva distinguere molto bene i momenti da vivere con i suoi parrocchiani, che da lui pretendevano sempre il massimo, da quelli meno formali da vivere in allegria, alla presenza del suo ragazzo preferito, Antonio Cazzato, prematuramente scomparso in un incidente d’auto in Albania.

Nel luglio 2002 scrissi su “Nuove Opinioni” un articolo su di lui dal titolo “40 Anni a Caprarica del Capo”, in cui inquadravo la difficoltà di vivere sempre con lo stesso entusiasmo nello stesso posto. Don Eugenio Licchetta mi rispose con una lunga lettera di sfogo socio-culturale, privata e brontolona, allegandomi addirittura alcuni appunti che amichevolmente gli aveva inviato negli anni il Vescovo Michele Mincuzzi. In quella lunga missiva scriveva: “Credimi, sono desolato: mai un confronto serio, con la mia comunità. Non ho avuto vita facile e comoda. Anzi. Ma sto qui. Mi hanno bruciato le macchine, ma sto qui … Sapessi almeno! Però io non sono scappato. Sto qua. E la porta della mia casa e della sala è aperta per tutti, senza paura. Perché ho voluto solo il loro bene e il loro progresso. La critica spicciola è pettegolume lurido, non adatto all’Uomo. Dico uomo non cristiano”.

Eugenio caro, dopo quell’articolo del 2002 mi rimproverasti di non aver detto tutta la verità. Con questo ultimo atto spero di aver posto rimedio, di aver assecondato quella parte di te che amava la verità nel confronto, senza ipocrisie e santificazioni postume.

Il Gallo, 2-15 ottobre 2021

Alfredo De Giuseppe

Per L'articolo del 2002 "40 anni a Caprarica" clicca qui

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