12 - Voti senza frontiere del 2021-05-08

Delle sofferenze                                                                         

La sofferenza è solo personale, privata (medicale e scientifica) oppure è anche collettiva, pubblica, in qualche modo condivisibile? Certo, nelle notti allucinate di cortisonici e morfine, fai i conti alla Sanità e i totali non tornano mai. Non siamo più all’inizio del Novecento quando gli ammalati erano ammassati in gran numero dentro stanzoni puzzolenti, ma certe notti (già insonni nella loro oscurità) non capisci perché in moderni Ospedali devi stare a fianco ad un altro sofferente che grida, sbraita, chiama e si lamenta anche per te. Lì, come a casa tua, ci sarebbe bisogno della massima attenzione e delicatezza, invece c’è ancora la gestione dell’ammalato come numero, di un tanto al chilo, di un tanto a pillola. E sii pure contento che da noi la Sanità è gratuita. E il personale nel suo complesso (voto 8) che si sbatte, si prodiga e si rapporta con professionalità, ma rimane pur sempre la metà di quello che sarebbe necessario. Pensi, però, che come all’inizio del Novecento, i potenti vengono ben accuditi in luoghi esclusivi, mentre la massa può accontentarsi di un qualcosa che assomiglia ad una cura e che invece è una serie infinita di somministrazioni.

Io ho vissuto la sofferenza della malattia (voto 2 all’infido Covid) come fatto condivisibile, perché quell’esperienza non poteva essere solo mia, perché non solo a me era stato dato il fardello del testimone. E così ti fai portavoce, a volte sgradito, forse anche abrasivo, dei comuni mortali che fanno lunghe file per avere accesso ad un certificato, un tampone, una prenotazione, quelli che aspettano all’esterno di strutture sanitarie col freddo e col sole alto, che siano ammalati, vecchi o giovani. E ci sono anche quelli che, in silenzio, sono lì per curare un tumore, e non si ribellano, non chiedono maggiore attenzione, una migliore gestione della loro intima sofferenza. Bisognerebbe condividere di più, chiedere di più e di meglio, ma è difficile nei tempi imposti dai ritmi televisivi, dove ognuno tenta di accreditarsi, di avere un posizionamento più fruttuoso, dove non c’è traccia della vera sofferenza, dove, in realtà, noi infine ci rifuggiamo per non pensare.

E andando ancora più giù, come si fa a non avere una sofferenza comune (direi politica) per tutti quei poveri più poveri di noi, quelli che hanno smesso di credere nell’organizzazione sociale e decidono che non sia più il caso di preoccuparsene, dormono sotto un vecchio palazzo e raccattano durante il giorno le poche cose che potrebbero essere utili per non morire quel giorno stesso? Sono quelli che il lavoro lo hanno perso, quel lavoro senza alcun senso, quello che si avvita su se stesso, sui propri stessi debiti, sulle proprie debolezze (multinazionali o caporali che siano).

Oppure come chiudersi gli occhi davanti alle più atroci delle sofferenze dei nostri giorni, quelle affrontate dai migranti che si buttano su un barcone, insieme ai figli, e sperano che il mare non li inghiotta prima di arrivare su una qualche terraferma che non abbia le sembianze di una prigione? E molte di quelle persone che si salvano vanno poi nei nostri campi a raccogliere per quattro soldi frutta e verdura: vivono accampati in modo animalesco in baraccopoli come quella di Torretta Antonacci, a San Severo, (voto 3, compreso Sindaci e Politici) dove si vive dentro case di cartone e lamiera, non c’è fogna e non c’è acqua. Dove qualche giorno fa, alcuni lavoratori sono stati sparati in faccia dai malavitosi locali, in una perversa logica di razzismo e sfruttamento, dove non c’è pietà, non c’è nulla. E noi, nessuno di noi, trova il tempo, il modo, di condividere quella sofferenza, andare lì e testimoniare, sedersi con loro, lavorare con loro, almeno organizzare dei pullman ogni settimana, come fanno ad esempio quasi tutte le parrocchie per andare nella vicina san Giovanni Rotondo.

La sofferenza è nascosta, è intima ma non può essere cancellata. Aushwitz non può essere cancellata, Hiroshima neanche, niente si può togliere da quel lembo di cervello quando c’è una strage di innocenti, un inutile attentato, un terribile genocidio (in Ruanda nel 1994 in poche settimane furono uccise un milione di persone e ancora oggi in Cina sono attivi dei campi di concentramento per punire la minoranza etnica degli Uiguri). Primo Levi, (voto 9) che è un grande del secolo scorso, anche per la bellezza della sua scrittura, nel 1985, in piena guerra fredda, durante una delle tante crisi intorno ai missili nucleari, scrisse un piccolo componimento e lo inviò alla Stampa, il giornale della sua città. Così concludeva, rivolgendosi ai potenti della Terra: “… Siamo invincibili perché siamo i vinti. Invulnerabili perché già spenti: noi ridiamo dei vostri missili. Sedete e contrattate finché la lingua vi si secchi: se dureranno il danno e la vergogna Vi annegheremo nella nostra putredine”.

La sofferenza di una breve malattia l’ho condivisa con migliaia di amici, parenti vicini e persone che non sentivo da anni, i tanti che vorrebbero fare e sono bloccati. Ho ricevuto migliaia di messaggi, ai quali non ho potuto rispondere compiutamente (e questo scritto è per tutti loro), uno appena l’altro giorno, che iniziava con un semplice “come stai?” e poi finiva in questo modo meraviglioso che mi ha convinto ancora una volta a condividere: “mai come in questo periodo, io e mio marito siamo entrati nella sofferenza degli altri. Serve resistere e stare vicini col pensiero e con le parole. La vita è questa per ora”. Lei insegna, lui è medico: due 10 insieme non li ho mai dati.  

il Volantino, 8 maggio 2021

Alfredo De Giuseppe

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