Libere fenomenologie del 2023-06-10 - ...di androidi che studiano

 Philip K. Dick è stato uno straordinario scrittore di fantascienza, morto per infarto nel 1982 a soli 54 anni. Una vita complicata, divorzi a quantità, anfetamine e una  serie di ossessioni. Ma anche un infaticabile scrittore, un attento osservatore della società moderna, americana soprattutto, consapevole del fortissimo impulso che la scienza stava dando alla vita dell’uomo e del pianeta Terra.

Qualche anno fa, quando cominciai a sentire sulla mia pelle la preponderanza che stava prendendo la tecnologia sulle nostre vite, andai a rivedermi “Blade Runner” di Ridley Scott e più recentemente a comprare il libro “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (Fanucci Editore) da cui era stato tratto il film.  Per anni il libro è uscito in Italia col titolo “il cacciatore di androidi”, anche se il titolo inizialmente scelto era “Dangerous days”, quasi ad esemplificare la confusione nella quale è convissuto Dick con i suoi scritti (quasi tutti pubblicati in modo approssimativo, da vari editori e con titoli differenti).

È sorprendente come negli anni cinquanta e sessanta, prima ancora della missione sulla luna, Philip K. Dick avesse, con un intuito formidabile, scritto dei romanzi  i cui protagonisti erano degli umani in conflitto con i loro stessi computer, in una costante interazione di violenze e di amori. Al di là delle invenzioni e delle circostanze di una trama, la cosa più affascinante nelle sue opere rimane questa enorme difficoltà nel riconoscere l’umano dall’androide, in un mix farneticante di culture, religioni e guerre, in un continuo miscuglio tra realtà virtuale e realtà vissuta, tra sogno e ricordo, tra intelligenza indotta e quella autoprodotta. In questo delirante divenire, risiede la grandezza dello scrittore, riscoperto dopo morto, oggetto in questi ultimi anni di numerosi studi, protagonista di trattati, documentari e biografie.

Non potevo non pensare a lui leggendo il titolo apparso nei primi giorni di questo giugno 2023 su tutti i giornali del mondo: “Drone uccide il suo operatore”. Riassumendo la notizia: è stato simulato in laboratorio un drone superaccessoriato con l’impostazione categorica di una missione d’attacco e distruzione di una postazione nemica. Secondo il colonnello dell'aeronautica Usa, Tucker "Cinco" Hamilton, il drone, controllato dall’intelligenza artificiale, incentivato da una specie di gara a punti, avrebbe deciso di non seguire l’input inviato dall’operatore umano che gli ordinava ad un certo momento di non eseguire più l’ordine di abbattimento. Il drone, di fronte a tale nuovo ordine, contraddittorio con la sua fondamentale missione, sarebbe tornato indietro e avrebbe ucciso il militare che lo seguiva da remoto.

In una dichiarazione a Insider, la portavoce dell'aeronautica statunitense, Ann Stefanek ha prontamente smentito: “Il Dipartimento dell'Aeronautica non ha effettuato alcuna simulazione di questo tipo con droni a intelligenza artificiale e rimane impegnato a un uso etico e responsabile delle nuove tecnologie. Sembra che i commenti del colonnello siano stati fraintesi e fossero intesi come semplici aneddoti”.

Hamilton, che è un pilota di collaudo sperimentale, durante il summit di Londra su “Future Combat Air and Space Capabilities” aveva comunque messo in guardia dal fidarsi troppo dell'intelligenza artificiale e ha testualmente dichiarato che “il test ha mostrato che non si può parlare di intelligenza artificiale, apprendimento automatico e autonomia se prima non si parla di etica e morale nell'approccio alla AI».

Con quest’incidente, vero o simulato che sia, abbiamo superato quel livello di guardia che i romanzi di fantascienza di Dick ci avevano già mostrato. L’uomo del futuro prossimo sarà un tutt’uno con le sue stesse macchine, non riuscirà più a distinguerle pienamente, né a controllarle in ogni loro sfumatura. Potranno esse stesse creare una nuova civiltà, con una nuova intelligenza, generatesi dai miliardi di flussi e di informazioni, anche umorali, personali, sociologiche e politiche, che riceveranno in continuazione dal web nei prossimi decenni.

Nel  film Blade Runner, l’androide Roy Batty, interpretato mirabilmente dall’attore  Rutger Hauer  dopo aver inaspettatamente tratto in salvo il protagonista Rick Deckard, poliziotto cacciatore di androidi che avrebbe dovuto ucciderlo, sotto la pioggia battente, prima di morire (i replicanti del film possono vivere solo per un tempo massimo di quattro anni), sulle note della musica di Vangelis, afferma amaramente:

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi:
navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,
e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”

Questa frase, una delle più iconiche del nostro tempo, citata spesso per cose ridicole e inutili, ha una sua struggente potenza, quella di un computer perfetto, con le sembianze di un ragazzo forte e bello, che ha girovagato per molte parti dell’Universo e vorrebbe rimanere a fianco all’uomo che l’ha creato. La frase, che non è presente nel libro di Dick, ma ne condensava cinematograficamente il pensiero, è oggi stupefacente: stiamo creando i nostri replicanti, non ne abbiamo la piena consapevolezza, ma loro stanno studiando, stanno imparando il nostro mondo, sapranno comandarlo, amando e odiando, secondo le opportunità. 

 il Volantino  n. 20– 10 giugno 2023

Alfredo De Giuseppe

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