28 - Voti senza frontiere del 2021-09-25

 

I cartoni di ALDES

Fra le decine di cose che ho creato c’è anche ALDES Discount. (Decine di cose iniziate e mai concluse, mai definite, perché affetto da Sindrome dell’Esploratore Inutile (SEI in sigla), come colui che non riesce a fermarsi, che non ha la sorte di trovare la posizione corretta e definitiva. Ma questo è soggetto di altri capitoli, di altri eventuali e più approfonditi studi). In quel momento, era l’inizio del 1993, il Discount, inteso come supermercato totalmente self-service, dove non trovi prodotti di marca e quindi puoi risparmiare, e puoi ancora tentare di ragionare con la tua testa nella scelta alimentare, era totalmente sconosciuto. Anche ai fornitori locali e nazionali, con i quali dovemmo lottare per imporre determinate schede tecniche, senza necessariamente essere un brand super reclamizzato. Durante tutto quell’anno, con i pochissimi collaboratori di una piccola organizzazione come poteva essere la mia, cercammo di impostare non solo i prodotti, ma anche la modalità di vendita, che doveva essere etica e in definitiva rispondente alle aspettative dei clienti, ma anche dei nostri  dipendenti. Uscivamo da un anno, il 1992, di grande crisi economica, durante il quale, oltre agli scandali di Mani Pulite,  per la prima volta un governo, quello di Giuliano Amato, fu costretto ad un prelievo forzoso direttamente dai conti correnti bancari degli italiani, senza che nessuno potesse opporsi. Ci sembrava una buona idea proporre un altro modo di concepire la spesa dei beni di prima necessità.

In questa ricerca, come Davide contro Golia, si voleva sfidare alcune regole della Grande Distribuzione Organizzata (voto 6), c’erano tanti particolari di marketing e di sostanza, a cominciare dall’assenza di volantini promozionali e di buste di plastica (voto 1). Il cliente aveva due scelte: o si portava la sua borsa da casa o poteva scegliere uno dei cartoni vuoti lasciati alla rinfusa dietro le casse. Quei cartoni avevano nella nostra logica almeno tre/quattro funzioni: si poteva risparmiare il costo della busta, sul costo dello smaltimento dei rifiuti, riutilizzo del cartone anche con riciclo in buste di carta; si poteva infine eliminare un elemento inquinante che ormai sembrava l’unico modo di trasportare anche un chilo di sale e uno di zucchero. All’inizio l’esperimento fu vissuto dalla clientela in modo positivo, quasi incuriosita dal nuovo sistema, dai cartelli esplicativi che invitavano all’uso dei cartoni, meno spreco, più risparmio.

Naturalmente le cose andarono diversamente. L’anno successivo, nel 1994, tanti nuovi discounter, locali e nazionali, si affacciarono sulla scena del centro-sud (per alcuni mesi fummo i primi e gli unici) e naturalmente cominciò una battaglia al ribasso, non tanto dei prezzi quanto dei servizi “etici”. In poco tempo i cartoni dietro le casse apparvero brutti, antiestetici e poco apprezzati dai clienti, che amavano la comoda busta di plastica. Inevitabilmente ci adeguammo anche noi e la storia dei cartoni, rimase nella storia minima di una minima storia economica: volantini patinati tutte le settimane oltre a resistenti e colorati sacchetti di plastica. (negli anni ’90 cedemmo definitivamente, tutti insieme, sul tema delle utopie, delle ideologie ecologiste, della giustizia sociale).

Poi, qualche anno fa, scoprii che dal 2009 The Marine Conservation Society (voto 9) aveva istituito il 12 settembre come “La Giornata Mondiale senza sacchetti di plastica”. È noto che solo l'Unione Europea produce 100 miliardi di sacchetti di plastica l'anno (una delle cause principali dell'inquinamento mondiale) che spesso si depositano nei fondali marini andando a intaccare la flora e la fauna acquatica. Secondo uno studio di Focus “Per degradare una busta di plastica occorrono dai 10 ai 30 anni. A meno che la plastica di cui è fatto il sacchetto non sia biodegradabile. In tal caso i tempi si accorciano grazie alla metabolizzazione dei batteri e altri microrganismi che “digeriscono” la plastica. Per essere biodegradabile la plastica non deve in alcun modo contenere metalli. Inoltre, secondo la normativa europea, un contenitore può essere definito biodegradabile se si decompone del 90% entro 6 mesi dal suo rilascio in terra o acqua”.

Manca una sola considerazione: un sacchetto anche se biodegradabile (ammesso che sia vero) ha sei mesi di tempo per essere ingerito da animali e pesci, per essere fonte di un’incredibile quantità, circa 25 milioni di tonnellate, di rifiuti annuali non riciclabili. Intanto gli oceani, che assorbono quasi un terzo dell’anidride carbonica che produciamo, sono sempre più in crisi. Vengono infatti inquinati ogni anno da oltre 13 milioni di tonnellate di plastica tra bottigliette, mascherine, guanti, flaconi di detersivi e borse monouso.

Anche quest’anno il 12 settembre era la giornata da dedicare, almeno nei supermercati, al Plastic free. Purtroppo non ne ha parlato nessuno, non lo ha fatto nessuno. La notizia è apparsa in un piccolo trafiletto dei giornali specializzati e i clienti non erano assolutamente informati. Ammesso che i clienti avessero mai accettato di comprare un chilo di sale senza un sacchetto di plastica. Ammesso che a qualcuno importi davvero risparmiare un po’ di risorse, fare impresa etica, fare guadagni sostenibili, impostare una visione di lungo periodo. Perché fare la spesa con un cartone era un po’ scomodo, ma con il sacchetto di plastica uccidiamo gli oceani, oppure ben che ci venga, mangiamo pesci pieni di microplastiche. Ricordiamoci di questo piccolo gesto simbolico, il prossimo 12 settembre. Fatelo sapere a clienti, utenti e tessere fedeltà, a gestori di supermercati e discount, ai tanti piccoli e grandi Bezos che affollano il nostro oceano vitale.

il Volantino, 25 settembre 2021

Alfredo De Giuseppe

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