Libere fenomenologie del 2022-07-09 - ius scholae

C’è una domanda che le persone pensanti si dovrebbero fare: perché un bambino nato in Italia, che studia in Italia e che parla bene la nostra lingua non dovrebbe essere considerato italiano, anche se i suoi genitori sono filippini o nigeriani? In queste domande e nelle eventuali risposte c’è tutta la questione immigrazione, il razzismo e le ipocrisie di un intero popolo.

Dopo anni di dimenticanze, in questi giorni è in discussione alla Camera la riforma della legge 91/92, che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana. È un testo con due soli articoli che prevede una cosa semplicissima: può diventare cittadino italiano il minore nato in Italia da genitori stranieri purché abbia frequentato per 5 anni uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione. La possibilità è estesa anche ai minori non nati in Italia ma che abbiano fatto ingresso nel paese entro i 12 anni di età. Questa legge, che riguarda circa un milione e mezzo di persone, definita ius scholae è già un compromesso al ribasso rispetto allo ius soli che invece avrebbe dato il diritto di cittadinanza a chiunque fosse nato dentro le nostre frontiere.

Nonostante la logica elementare che sottende tale norma, la destra italiana (come tutte le destre mondiali) si oppone da anni e pervicacemente all’approvazione di questa riforma. Qual è il fenomeno sociologico/psicologico che impedisce di fare a tutti un ragionamento pragmatico e umanitario? La convinzione, assai diffusa nei parlamentari della destra storica, che il popolo non ami lo straniero, specie se di colore diverso dal bianco, che sposti dei consensi elettorali e che in definitiva ce la possiamo cavare da soli. È il perpetrarsi del sogno autarchico che in genere porta i popoli all’involuzione sociale e alla ristrettezza economica e culturale. Del resto qualche fondamento storico su questi pensieri c’è, fin da quando, divenuti una Nazione unita, dopo il 1870, iniziammo a pensare di prenderci parte dell’Africa, con la sola motivazione di essere portatori di valori civili e religiosi superiori a quelli delle popolazioni indigene (al pari delle altre potenze europee). Commettemmo delle brutalità feroci già nella prima campagna di Libia nel 1911. Poi l’avvento del fascismo, tutta la retorica sull’impero romano e sulla superiorità dell’uomo occidentale portarono alle leggi razziali, a vere e proprie stragi e violenze inenarrabili nei confronti di genti che all’improvviso si ritrovarono sotto dittatura. Evidentemente la forza di quella narrazione, invece di creare nelle menti italiche un reale senso di colpa, ha lasciato uno strascico di stupido nazionalismo, per cui un uomo viene giudicato sulla base del passaporto e del colore della pelle.

Nell’ipocrisia generale ci sono però delle eccezioni. In questi giorni si è fatto un gran parlare di Khaby Lame, 21 anni, uno dei tiktoker più famosi al mondo, nato in Senegal e arrivato in Italia quando aveva solo un anno di età. In un’intervista su Repubblica ha ricordato di essere ancora in attesa di cittadinanza, nonostante abbia presentato la documentazione da oltre un anno: “Non è giusto che una persona che vive e cresce con la cultura italiana per così tanti anni ed è pulito, non abbia ancora oggi il diritto di cittadinanza. E non parlo solo per me. [...] Il visto e magari la cittadinanza mi renderebbero le cose più facili, ma non sarei contento pensando a tutte quelle altre persone che magari sono anche nate in Italia e non hanno lo stesso diritto”.

Subito dopo la diffusione dell’intervista, il sottosegretario agli Interni, Carlo Sibilia, in un tweet ha rassicurato il ragazzo dicendo che il decreto di cittadinanza è stato emanato ai primi di giugno dal Ministero e che a breve sarà chiamato per il giuramento. Ma questo ha riacceso le polemiche sul diritto alla cittadinanza come un premio o merito, frutto di concessione solo a chi eccelle o si distingue per popolarità. Infatti gli atleti, uomini e donne, che corrono per i colori italiani, e magari vincono una medaglia (con tutta la fanfara dell’inno nazionale) ottengono subito la cittadinanza, mentre i loro stessi familiari devono attendere i tempi biblici di una burocrazia volutamente complicata.

Va precisato che la legge non è nel programma del governo Draghi, che è un’iniziativa parlamentare, già più volte discussa nelle commissioni e sempre rinviata nei decenni precedenti per futili motivi elettoralistici, anche dai partiti di centrosinistra (che invece ora insieme al M5S paiono più determinati). Eppure in un Paese come l’Italia, afflitto da denatalità e scarsa propensione allo studio, avremmo un gran bisogno di nuovi cittadini, magari acculturati e pronti alle sfide del prossimo futuro.

Però un filo di ottimismo ci resta. Se pensiamo, ad esempio ai matrimoni gay, abbiamo la percezione di come siano cambiati i tempi. Specie se la coppia che decide di convolare a nozze è nota e difficilmente censurabile dai media dominanti, tipo presentatori, ballerine e volti noti presi per una qualche combinazione. È il caso di Paola Turci e Francesca Pascale, la prima cantante e la seconda ex compagna fedele di Silvio Berlusconi, sposatesi il 2 luglio a Montalcino. Lo scandalo più grosso è stato scoprire che avevano affittato una suite in un antico castello per 6mila euro a notte, con annessa piscina privata. Per il resto, nonostante da più parti si dica che l’istituto del matrimonio sia in crisi, con il consenso di nonno Silvio, tutto è apparso normale.

il Volantino, 9 luglio 2022

Alfredo De Giuseppe

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