120 - Magliari senza speranza - 2020-05-09

Qualche giorno fa vedevo il film “i magliari” del grande Francesco Rosi, girato nel 1959 in Germania, una sceneggiatura basata sulla vita e il lavoro dei nostri immigrati all’estero. Tralascio il facile commento sulle truffe e sull’endemica esportazione dei metodi mafiosi fuori dai confini nazionali, per analizzare invece il cambio antropologico che ha subito l’uomo nell’arco di pochi decenni.

Intorno al 1960 i giovani italiani andavano all’estero per avere uno stipendio migliore, un lavoro più strutturato e dignitoso. I ragazzi che rimanevano al sud cominciavano a studiare, anche se erano figli di contadini, si aprivano i licei anche in provincia, trovavano un lavoro già subito dopo il diploma, si sposavano ben prima dei trent’anni. Le rimesse dall’estero facevano da volano al boom edilizio: si assicurava la casa alle nuove famiglie che andavano formandosi con le moderne modalità consumistiche. I giovani iniziarono a fare sport, ad ascoltare liberamente musica, a formare gruppi teatrali e musicali, a viaggiare per vedere il mondo.

C’erano delle sacche di povertà e ignoranza, ma in compenso la TV faceva da cassa di compensazione, cercando il più possibile di nazionalizzare una serie di municipalità che stentavano a parlare la stessa lingua. Gli operai salivano sulle impalcature senza alcuna protezione, le donne avevano ancora dei divieti assoluti (ad esempio non potevano accedere alla Magistratura o praticare tutti gli sport degli uomini), i braccianti agricoli erano ancora lì con la zappa e la vanga, ma avevano la certezza che i loro figli avrebbero avuto una vita migliore. Si intravedeva, insomma, la luce dopo la miseria: c’era in circolo una parola magica, la speranza.

Poi vennero finalmente tempi migliori, non si andò più a fare i minatori in Belgio, né i magliari ad Amburgo, le donne ottennero la parità, arrivarono il diritto di famiglia, lo statuto dei lavoratori e le regole per la sicurezza sul lavoro. Gli stipendi furono equiparati per legge fra uomo e donna, fra nord e sud, fra italiani e stranieri, la scuola divenne obbligatoria fino alla terza media e i ragazzi non potevano più essere sfruttati. Quello sembrava il momento delle conquiste sociali, quello doveva essere il momento d’inizio.

Con gli anni ottanta, le conquiste sociali e individuali vennero date ormai per scontate e la religione del liberismo, come unico strumento di governo, divenne la materia fondante di ogni riforma. Quello che doveva diventare sempre più consolidato, cominciò a sfaldarsi: la finanza stava diventando più importante della  produzione, speculare sul denaro era più importante che salvaguardare le nuove povertà.

Col passare degli anni la vita è diventata più difficile: l’inserimento al lavoro delle nuove generazioni sempre più legato a variabili esterne alle loro capacità e formazione. Si è consolidata la logica di un lavoro instabile, senza alcuna certezza, non per colpa di famelici imprenditori pre-industriali, ma perché il mondo globalizzato ha cominciato a girare così. Le conquiste sociali sono rimaste appiccicate ai lavoratori stabili dei decenni precedenti: i sindacati, ma anche i governi, si sono concentrati sulla difesa di quei diritti acquisiti, non c’era spazio per comprendere quanto stesse cambiando il mondo.

Ci siamo ritrovati con ragazzi laureati che sopravvivono consegnando pizze, con i commessi assunti attraverso le società interinali per una settimana, a volte anche per due giorni, con le Partita Iva come escamotage per eliminare ogni pur minimo diritto. Questa situazione ha generato insicurezza, direi anche infelicità, distacco da ogni legame affettivo, chiusura dentro un mondo virtuale. Tutta una serie di nuovi comportamenti collettivi intercettati dalle posizioni più retrive, nazionaliste e xenofobe, inserite dentro un quadro economico globale sempre più instabile. Prima scappavi dalla povertà scegliendo una nazione emergente, dove c’era bisogno di ingegno e manodopera, vedi le Americhe e l’Australia, tutte le grandi metropoli dell’Occidente, dove anche facendo il cameriere potevi portare a casa dei risparmi. Oggi rischi di migrare in un qualsiasi posto del mondo per vivere in un tugurio di periferia, senza alcuna possibilità di emergere, forse puoi raccogliere pomodori o distribuire volantini porta a porta, dentro un sistema inquinante e autodistruttivo.

Nel frattempo una élite di persone, giovani e vecchi, comunque una nicchia di emergenti, ha dettato i nuovi modelli, ha guadagnato quanto mai nessuno prima, ha illuso masse di giovani sulla possibilità di salire in alto, non più con un ascensore che ti porta ai piani superiori, ma con un jet che decolla in pochi secondi verso cieli stratosferici. Sportivi, cantanti, artisti, blogger, influencer, inventori di app e di giochini, tutti miliardari con pochi click, almeno apparentemente.

Ecco che una serie di atteggiamenti standardizzati, insieme a una scarsa propensione alla condivisione collettiva, ha portato popoli interi verso un’unica destinazione: la perdita della speranza. La differenza sostanziale fra gli anni del secondo dopoguerra e oggi è solo una: lì c’era la speranza di costruire un mondo migliore, qui c’è la rassegnazione di una sopravvivenza senza possibilità di riscatto. O meglio si lascia intravedere un sogno a tutti, puoi vincere cifre milionarie con un botto solo, puoi diventare all’improvviso un fenomeno mediatico con miliardi di visualizzazioni, puoi diventare un riccone con aerei privati e case in ogni continente. Però intanto tu sei nella massa di chi non riesce a pagare l’affitto, non trova un modo stabile per vivere, neanche per sedersi a leggere un libro, neanche per trovare un compagno con cui condividere la disperazione. L’evoluzione è una brutta bestia: non sai mai cosa trovi alla prossima fermata.

La mia colonna - il Volantino, 9 maggio 2020

Alfredo De Giuseppe

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