118 - Un Governo contro il razzismo? - 2020-04-25

La propaganda si infrange sempre sulla realtà. Da anni tutti i leader populisti europei pigiano sul tasto dei migranti per vincere elezioni senza alcuno studio statistico, ma solo interfacciandosi con la pancia dei cittadini più ingenui. Poi arriva un virus, si comincia a morire, si deve stare tutti chiusi in casa, nessuno può fare cose illegali, il controllo è stringente ovunque. Anche nei campi di pomodoro, di patate, nei vigneti e nei porcili. Quindi non è possibile portare gli immigrati irregolari a lavorare. A questo punto si rischia un collasso agro-alimentare con il blocco delle raccolte di ortaggi e frutta. Gli stranieri comunitari, come rumeni e bulgari, non possono venire per gli attuali blocchi sanitari, gli italiani non hanno molta voglia di buttarsi di nuovo nelle campagne. Forse una minoranza di ragazzi ci sarà, ma servono circa 250.000 raccoglitori e dubito che gli italiani disponibili a perdere delle diverse utilità siano superiori al 10% del fabbisogno. Forse un giorno noi italiani potremmo tornare a raccogliere pomodori, ma dobbiamo sapere che a quel punto la filiera nel suo complesso costerà il doppio con tutte le conseguenze del caso.

Insomma c’è un’unica strada: la regolarizzazione degli stranieri presenti in Italia senza alcun permesso e senza alcun documento. Normalmente queste persone, dopo aver subito diverse angherie nei loro paesi, diverse fasi di tortura nel viaggio verso l’Europa, cadono poi nelle mani delle delinquenze locali, che ancora una volta fungono da regolatore del mercato. Con il permesso di tutti noi, compreso Stato, Regioni e confederazioni varie. Per capire questo basterebbe collegarsi in tv tutte le sere con la baraccopoli di San Ferdinando, vicino Foggia, e fare un reportage costante delle condizioni disumane dei suoi abitanti. Un reality-show di quella situazione aiuterebbe molto a regolarizzare i circa 600.000 senza permessi, dare lo ius-culturae a tutti i bambini che iniziano la prima elementare, umanizzare in definitiva la nostra società attraverso una serie di leggi che prendano atto della situazione reale e non delle fantasticherie, delle volgarità di cui sono intrise le polemiche politiche.

Dovremmo tornare a chiedere delle cose più giuste, per tutti, non solo per gli italiani, o per i lombardi, o per gli stipendiati statali. Un governo che sappia davvero convincere il proprio popolo che è arrivato il momento di proporre e organizzare una società più equanime, perché senza giustizia sociale non è possibile immaginare un futuro di pace. Mi sento di essere molto vicino a Papa Francesco in questo momento, forse perché è un Papa in minoranza (e pensare che notoriamente mi dichiaro agnostico). Ma certamente più vicino a lui e al Dalai Lama che in questi giorni ha dichiarato: “L’unica forma di controllo che può veramente funzionare in una società è quella basata sull’autodisciplina, sull’autocontrollo, sul senso di responsabilità verso noi stessi e verso gli altri”.

Dopo il grido d’allarme lanciato dagli imprenditori agricoli, si son sentite timide voci di politici e di ministri, pronti a regolarizzare i lavoratori che saranno necessari, e basta. Ancora una volta le persone viste in termini esclusivamente utilitaristici, vissute come un fastidio a cui porre rimedio solo perché ci conviene. Una convenienza momentanea, nessuno scatto culturale, nessuna apprensione reale per la vita di tutti gli abitanti della nostra nazione, immigrati compresi. Partendo dalla Storia, perché si cambia solo riconoscendo i propri errori.

Nell’aprile del 1937 l’Italia ebbe il coraggio di approvare una legge denominata “Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditi”. Con questo decreto lo stato italiano vietava definitivamente il matrimonio misto e la pratica del madamismo, cioè il concubinaggio con donne africane. Il decreto 880 non rappresentò nient’altro che l’apice della campagna razzista del regime nei confronti degli abitanti delle colonie. Gli italiani che si “macchiavano” della colpa di concubinaggio con una donna africana o, peggio ancora, di matrimonio rischiavano da 1 a 5 anni di reclusione, in quanto commettevano due delitti, uno biologico e uno morale. Il primo consisteva nell’accusa di «inquinare la razza», mentre per quello morale la colpa era di «elevare» l’indigena al proprio livello, perdendo così il prestigio che derivava dall’appartenenza alla «razza superiore». Un governo decente prima o poi potrebbe tentare di mettere rimedio, seppure a 83 anni di distanza, al razzismo disciplinato per legge di quei governi, di cui dovremmo sempre vergognarci. Invece i figli, i nipoti di quei soldati che stupravano e sfruttavano quelle donne sono ancora qui a insegnarci come difendere l’italianità. Magari cantando “faccetta nera” mentre raccolgono i pomodori.

La mia colonna - il Volantino, 25 aprile 2020

Alfredo De Giuseppe

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