070 - Le peripezie della Quercia Vallonea - 2019-02-16

Ogni città ha un suo simbolo nel quale si riconosce, Roma ha il Colosseo, Pisa ha la torre pendente, Torino la Mole Antonelliana e Tricase la Quercia Vallonea. Un simbolo un po’ dimenticato, abbandonato, certamente non valorizzato da nessuno. Eppure rileggendo il libro “La Vallonea, natura e arte” a firma di Raffaele Congedo, pubblicato nel 1974, sono rimasto sorpreso di quanto nei secoli abbia rappresentato quell’albero per i tricasini. Il libro di Congedo scritto con passione e competenza andrebbe letto e studiato in tutte le scuole di ogni ordine e grado di Tricase: è un compendio di storia, di botanica, di passione ecologica e umanistica delle nostre terre.

La quercia Vallonea, un albero considerato sacro dagli antichi greci, era l’albero di Giove e rispettato per le proprietà tanniche che permettevano di conciare le pelli animali con una certa morbidezza. Nel Salento probabilmente arrivò circa 3.000 anni fa, ma trovò una sua vera e propria coltivazione con l’insediamento dei monaci basiliani, un po’ prima dell’anno mille. La Vallonea, la quercia sacra che Omero menziona come consigliera di Ulisse, era ben presente intorno al XIV secolo nel Basso Salento, fino a Galatina. Ma fu Tricase a diventare la capitale della conciatura di pellami usando il tannino delle sue ghiande. C’erano nel suo territorio numerosi boschi di querce.

L’Orlandi a fine del 1700 ne contava circa 500, di cui alcune di dimensioni imponenti, affermando con certezza che qualche secolo prima erano molto più numerose. I tricasini appellarono la quercia con nomi diversi, come Falamida o Pizzofao, ricavarono sugli scogli di mare, vicino all’attuale porto, delle buche che, sfruttando anche le maree, aiutavano a pulire e ammorbidire le pelli. “Le conche della Rotonda” di Tricase Porto oggi non ci sono più, perché noi non sappiamo valorizzare nulla di ciò che siamo stati, neanche i ricordi. Eppure l’arte della concia divenne così peculiare per Tricase che i suoi cittadini vennero chiamati “i Pelacane”, cioè “quelli della pelle del cane”. Per un periodo abbastanza lungo tutti volevano i manufatti di pelle conciati a Tricase perché profumati e morbidi. Si narra che anche Federico II, prima di imbarcarsi a Brindisi verso Gerusalemme per una crociata, volle delle cinture conciate con le nostre vallonee.

L’arte del pelacane andò via via scemando, prima a causa dell’importazione massiccia di ghiande dall’Asia e poi per l’arrivo di lavorazioni chimiche, più idonee a colorare pelli e tessuti. All’unità d’Italia, le Vallone erano ormai poche e considerate solo piante ornamentali, anche se qualche artigiano conciatore ancora resisteva.

Ad un certo punto per identificare l’esemplare più bello, più antico la nostra quercia fu denominata “dei cento cavalieri” perché la sua chioma, alta circa 15 metri copriva più di 500 mq.

Nel 1972 la Provincia di Lecce, nell’ampliare la strada che da Tricase va verso il Porto aveva deciso di abbattere quell’ostacolo chiamato Vallonea (cosa che poi riuscì nell’abbattimento di parte dell’Abbazia del Mito). Dopo le rimostranze del direttore del compartimento forestale, che minacciò addirittura di piantarci una tenda ed abitarci, si decise di effettuare un nuovo percorso (non sono riuscito a trovare documentazione su qualche protesta dei tricasini). Comunque nel 1979, l’Unesco riconosceva alla quercia di Tricase la qualifica di monumento naturale, quale specie botanica da preservare. Nel 2000 il WWF individuò in Italia 20 alberi, uno per Regione, da custodire per il loro valore storico e monumentale: per la Puglia l’unico albero selezionato fu la Vallonea di Tricase.

Molti avevano dimenticato però che quel residuo stradale, quel pezzetto di terreno dove insisteva la più grande quercia italiana e la terza più antica d’Europa, aveva ancora un legittimo proprietario con nome e cognome. Mentre l’ultimo boschetto di Vallonee ancora esistente fra il Porto e la Serra era diventato da decenni proprietà del Comune, la sacra quercia apparteneva alla famiglia De Nitto.

Nel giugno 2013 la proprietà decise di recintare l’area e di effettuare dei lavori su una pajara insistente sullo stesso terreno. Intervenne l’autorità giudiziaria e sequestrò il cantiere. Dopo qualche mese ci fu il dissequestro. Da allora silenzio assoluto, fra detriti, erbacce, ringhiere in alluminio e chiusura totale. L’Amministrazione Chiuri non pare interessata alla vicenda, né tantomeno la Provincia, la Regione, il WWF, l’ente parco. La quercia Vallonea, il simbolo di Tricase, sopravvive (?) nonostante tutto. Lei si lamenta e nessuno l’ascolta, neanche i pelacane.

 

La mia colonna - il Volantino, 16 febbraio 2019

Alfredo De Giuseppe

 

 

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