2015-07 "Le nostre occasioni perse" - 39° Parallelo

Nella mia vita di elettore di sinistra, di convinto assertore della democrazia illuminista, liberale e tollerante, posso contare almeno tre grandi occasioni perse. Cerco di analizzarle con i dovuti riferimenti storici ad esse connesse, anche in risposta ad alcune osservazioni ricevute da amici del Movimento 5 Stelle.

Votai per la prima volta alle Politiche del 20 giugno 1976, erano le prime elezioni con il voto ai diciottenni. Dopo il grande successo delle amministrative di due anni prima, il PCI raccolse una valanga di voti, ma non riuscì a sorpassare la DC, che a sua volta conservò sia pure di poco la maggioranza relativa. Il governo fu affidato ad Andreotti che non poteva fare a meno dell’appoggio comunista, pena nuove elezioni e probabile sconfitta DC. Si scelse una formula che la dice lunga sulle capacità oratorie di quella classe politica: “la non sfiducia”. Era anche un modo per tenere insieme il PCI di Berlinguer che stava mutando pelle e gli alleati internazionali che nel convegno dei paesi NATO tenutosi a Portorico una settimana prima delle elezioni italiane, fecero chiaramente capire che se il partito comunista (per la prima volta in una democrazia occidentale) fosse entrato nel governo, l’Italia non avrebbe ricevuto più neanche una lira. Questa decisione, presa in assenza degli italiani, fu resa pubblica da Helmut Schimdt, cancelliere tedesco, nel luglio successivo. Il governo partì con l’escamotage della non sfiducia, il PCI ebbe in cambio la presidenza della Camera che andò a Pietro Ingrao. Questa però era una formula disastrosa per entrambe le formazioni: la piazza ribolliva di estremismi, da un lato a sinistra molti vedevano quella collaborazione come la fine di un sogno, dall’altra parte qualsiasi riforma sembrava andasse nel senso della piena sovietizzazione della società italiana. Fra il giugno 1976 e il marzo 1978, Enrico Berlinguer e Aldo Moro si sforzarono fra mille difficoltà di trovare una vera e stabile soluzione per il governo del Paese. Da qui nacque l’ipotesi del “Compromesso storico” che doveva nascere sotto la guida di Andreotti (perché non sembrasse una sconfitta definitiva ai tanti democristiani poco convinti) ma con ministri di entrambe le formazioni. Questo passo sarebbe stato essenziale per il compimento della democrazia italiana, ancora inquinata da fascismi di vario tipo all’interno delle istituzioni – vedi stragi di Stato mai pienamente svelate. Le Brigate Rosse si insinuano in quel disagio sociale, si accaparrano le simpatie di una parte dei giovani studenti extra-parlamentari e diventano forza armata organizzata contro ogni forma  di Stato che non fosse il loro. La purezza prende forma di lotta armata. Una lotta senza quartiere: si uccidono giudici, giornalisti e imprenditori, militari e sindacalisti, spesso senza fare alcuna distinzione. Il 16 marzo 1978 uccidono i cinque uomini di scorta e rapiscono Aldo Moro. Durante la prigionia, anche in funzione dell’atteggiamento di Moro, tutti intuiscono che la sua liberazione sarebbe stata devastante per il potere democristiano. Invece i brigatisti lo uccidono il 5 maggio mentre la DC ondeggia sulla fermezza equivocando spesso sulle parole,  i socialisti propendono per lo scambio di prigionieri e il PCI invoca la fermezza per salvare lo Stato Democratico. Subito dopo, nel giugno del ’78, ci sono le elezioni amministrative: la Dc piangendo ipocritamente il suo martire prende il 42.6%, il PSI prendendosi la palma di garantista/umanitario sale al 13 e il PCI di lotta e di governo scende al 26.4 (contro il 35.6 delle politiche del ’76). Quel successo diede alla DC e al PSI la sensazione che si potesse governare senza mai cambiare nulla, che con qualche populismo si potevano dividere le ricchezze del Paese. Risultato finale della purezza brigatista e della lotta contro “l’imperialismo delle multinazionali”: la DC e il PSI governarono attraverso il CAF tutti gli sciagurati anni ’80, gli anni del grande indebitamento, della corruttela generalizzata, della riorganizzazione dei partiti di destra, fino al 1992, anno di Tangentopoli.

Nel 1991 al referendum per la preferenza unica avevano vinto, a sorpresa, i SI, eliminando definitivamente quel continuo scambio fra preferenze amiche, nonostante tutti i partiti di governo si fossero schierati contro, soprattutto il PSI di Craxi che invitava gli italiani ad andare al mare. Nel 1992 vengono trucidati Falcone, Borsellino e loro scorte: la sensazione degli italiani, di noi che volevamo cambiare questo paese, è che la mafia, colpita in molti suoi aspetti, non ultimo quello politico, tentasse di mantenere il suo predominio. Per fare questo utilizzava ogni mezzo, compreso stragi di tipo medio-orientale e l’utilizzo dei suoi potenti uomini all’interno delle istituzioni. Arriva il 1993, nuovi referendum, con i quali di fatto si decretava la fine del proporzionale e l’inizio del maggioritario. Il vecchio sistema aveva stancato tutti (così almeno sembrava) e il maggioritario doveva dare la certezza della vittoria elettorale e la fine dell’inciucio costante che aveva portato alla corruzione generalizzata e quindi alla Mafia. Protagonisti di questa stagione, Marco Pannella, il vecchio referendario mai domo e Mariotto Segni che aveva lasciato la DC e fondato un nuovo e più moderno movimento politico. Nel Gennaio 1994, dopo mesi di studio della nuova legge elettorale che prende il nome di Mattarella, Silvio Berlusconi annuncia “la sua discesa in campo” fonda “Forza Italia” per salvare l’Italia dal comunismo.  I fautori del maggioritario, gli stessi Pannella e Segni, decisero di proporre le loro liste autonome “Patto per l’Italia” e “Lista Pannella” che non aderirono al progetto “Alleanza dei progressisti” che vedeva il PDS, Verdi e altri uniti contro il centro-destra che in Berlusconi sembrava aver trovato il nuovo leader. Quest’ultimo aveva federato sia la Lega secessionista di Bossi che il MSI (ancora molto fascista) di Fini, capendo che nel maggioritario le liste uniche non possono vincere. Segni e Pannella con il loro 17% che fruttarono zero seggi ai radicali e 4 seggi a Segni decretarono di fatto la vittoria di Berlusconi. La soluzione più anti democratica, più incredibile che si potesse supporre dopo i fatti, le stragi, le tangenti e le mafie degli anni 1991-93 e il relativo risveglio di una coscienza collettiva. “Potenza della televisione” disse qualcuno, io pensai e scrissi: “l’italiano di fronte al vero cambiamento arretra sempre”. Nella realtà la contraddizione dei grandi riformatori Segni e Pannella aveva di fatto consegnato il Paese alle nuove e vecchie mafie. Quel mix micidiale di malpancismo razzista del nord, unito alle idee fasciste dello Stato fino al puro populismo televisivo che ha portato negli ultimi decenni più volte l’Italia sull’orlo dell’abisso economico, etico e strutturale. Berlusconi, già corruttore di Craxi e di vari settori della prima Repubblica, diventava il nuovo salvatore della Patria, colui che ci avrebbe fatto definitivamente sprofondare nell’immaginario collettivo mondiale.

Nel 2011 l’Italia è arrivata al capolinea. Tutte le istituzioni mondiali, dopo la grande crisi che ha colpito il turbo-capitalismo nel 2008, hanno ormai capito che l’anello debole sul quale si può innestare una crisi irreversibile e planetaria è proprio il nostro Paese. Berlusconi nel novembre 2011 si dimette per la perdita della sua maggioranza ma anche per il succedersi di scandali pubblici e privati, per la difficoltà di rapporti internazionali (gli altri Capi di stato rifiutano anche le foto insieme al Berlusca). Invece delle elezioni che avrebbero decretato una probabile vittoria della sinistra, si opta per un governo tecnico “in grado di fare le cose che servono e che la politica non ha mai fatto”. Arriva Monti con il suo prestigio bocconiano, appoggiato da destra e sinistra, tappa qualche falla, abbatte le pensioni, aumenta le tasse, risparmia qualche euro su Enti locali, scuola e grandi strutture e la baracca regge. Passata la grande paura, Berlusconi ritira la sua fiducia al governo Monti, si possono indire nuove elezioni, si vota il 25 febbraio 2013. Dalle urne non esce in sostanza nessun vincitore, anche se il PD è primo partito e grazie al premio derivante dal Porcellum (voluto dal governo di centrodestra nel 2006 per contrastare la probabile vittoria di Prodi) ha una grande maggioranza alla Camera. Forza Italia di Berlusconi ha un incredibile ritorno e perde le elezioni per pochi voti ma al Senato ha pressoché gli stessi numeri del PD. Terza forza è il neonato Movimento 5 Stelle di Grillo che pur arrivando dopo Centro-sinistra e Popolo delle Libertà (non avendo coalizioni), in molte regioni è risultato primo partito, in ogni caso vincitore morale della competizione.  A quel punto inizia un balletto davvero incredibile: il M5S invece di incalzare il PD sulle riforme da attuare e pretendere di entrare nel governo, decide di rispondere un semplice, secco NO a qualsiasi proposta. Ancora una volta non si vuole contaminare la purezza dell’idea, dei giovani eletti, dell’onestà, dell’ecologia e della bellezza. Insomma “con voi non governeremo mai” dice Grillo la sera stessa delle elezioni e mantiene fermo tale proposito fino alla fine, condendolo di improperi e varie (inutili) scene macchiettistiche.  Quel No grande e ripetuto ha prodotto immediatamente alcuni effetti pratici e tragici: viene nominato nuovamente Presidente della Repubblica uno stanco e ormai confuso Napolitano, fortemente voluto dalla destra al posto di un nome condiviso fra PD e 5 Stelle; Bersani non può fare il governo con Berlusconi e si defila; viene nominato Gianni Letta che  produce il governo delle “Larghe Intese”; Berlusconi come gli succede da vent’anni cambia idea secondo sua personale convenienza ed esce dal governo nel dicembre del 2013; Matteo Renzi vince le primarie PD e nel febbraio 2014 fa cadere Enrico Letta e inizia il suo governo, alleandosi con il NCD una costola berlusconiana guidata da Angelino Alfano. Prima mossa: il famigerato “Patto del Nazareno” con un Berlusconi condannato e fuori dal Parlamento.

In definitiva quel NO di Grillo è costato tantissimo alla salute del Paese e al suo vero cambiamento. Chi come me aveva votato per il Movimento 5 Stelle sapeva benissimo di votare per una forza di rottura che doveva essere il grimaldello della casta, della fine dei privilegi, dei conflitti d’interesse, delle folli spese militari e delle grandi opere incompiute oltre che del berlusconismo come tragicomica vicenda ventennale. Tutte cose che poteva forzare solo un movimento nuovo, che riuscisse a far emergere il meglio degli ideali di sinistra, quella sinistra di uguaglianza e felicità. Invece in nome della propria purezza tutto questo è stato sacrificato e al governo sono tornati quelli di sempre, forse addirittura peggiori perché in sovrappiù hanno la faccia giovane e sbarbata. Oggi sono trascorsi oltre due anni da quelle elezioni, il Paese è ancora più abbrutito, i veri cambiamenti son tutti da venire.

Ho paura della purezza. Il concetto di non contaminazione è la più grande bufala della storia umana: tutto è incrocio e sovrapposizione, di persone, di idee, di culture, razze, sesso, filosofie e religioni. Chi negli ultimi secoli ha immaginato, per pura ignoranza o malafede o addirittura per un disperato senso di potere, che la purezza fosse un valore assoluto, ha generato cose terribili, guerre, stermini di massa, violenze e regressioni. Soprattutto ha generato un’idea malsana della politica che va sempre intesa come confronto-scontro ma mai come isolamento totale. Coltivo il dubbio e dubito fortemente di chi ha verità assolute, tanto vere da non poter essere condivise, discusse, ampliate insieme ad altri. Un isolamento che forse acquieta l’animo ma necessita di pensieri netti e semplici (dubito fortemente del pensiero semplice), che spesso si tramutano in slogan ripetuti all’infinito e quindi svuotati di ogni senso critico. Un pensiero semplice che implica un capo, un totem e una bibbia. Tutte cose da aver paura.

Ho scritto queste note per rispondere ad una semplice domanda: “cosa c’è che non va nel M5S?” che alcuni mi rivolgono incessantemente, sapendo che almeno una volta l’ho votato. Ma potevo anche riassumere con poche parole: per colpa di un NO abbiamo perso degli anni, abbiamo di nuovo affidato il governo a chi non doveva, pur di non coinvolgerci abbiamo fatto vincere il nemico.

Alle prossime elezioni andrò ancora a votare con lo stesso presupposto che avevo a diciott’anni: spero in un governo più coraggioso, che sappia educare al senso di bene comune, che sappia aprirsi al mondo che cambia, che intuisca le prospettive dei prossimi decenni. Che un partito prenda la maggioranza assoluta me ne può fregare, mi interessa di più che un governo sia migliore del precedente. Solo questo.

39° Parallelo - Luglio-Agosto 2015

Alfredo De Giuseppe

 

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