1982-03 "Cromosomi o ambiente?" - Nuove Opinioni

Il pettegolezzo, si sa, è inversamente proporzionale al numero della popolazione alla capacità che essa ha di fare storia.

Si direbbe dunque che le frazioni di Tricase sono (addirittura) più pettegole di questo piccolo centro e non è difficile capirne i motivi. Il pettegolezzo, quel vociare continuo e diffuso, quello scandalizzarsi impietoso, quel grigio “te lo dico ma non te l’ho detto”, è stato (forse è) l’unico valido veicolo di comunicazione per gente che non ha conosciuto altri mezzi di cultura.

È in questo clima che nascevano (nascono?) gli amori nei vicoli, i giochi di gruppo, la minestra calda al vicino, le risate sulle fresche “chianche” estive, nascevano figli a dismisura, amplessi veloci, tradimenti libidinosi, liti feroci e odi decennali.

Questo gruppo di famigli è meno disposto di un grosso centro alle novità; la morale è ferma e immutabile eppure nelle piaghe della rigidità e del perbenismo cattolico si trovano sempre gli esempi di indissolubile volontà, forse inconscia e mai pubblicizzata, di vivere.

E la vita, in questi casi, è nel rifiuto di certe regole, o almeno in una certa storica acquisizione dei fatti quotidiani.

Che poi nella storia, anche in quella piccola, non rimane mai il comune ma lo strano, il grande e alla lunga sono solo ridicoli difensori del comune senso del vivere.

Arrivo a Depressa e trovo subito “Cimino”, che da anni strambazza per le strade di Tricase con un “Ah, signorina te piace…?”.

Andiamo a casa sua. Sei persone in due stanze, due bambine di appena un anno, non esiste il bagno, il pitale, grande (si vede dietro una tenda) si svuoterà più tardi, quando è sera.

Cimino” non sta bene, da poco gli danno una pensione, ma è una questione di cromosomi o ambiente?

L’osteria è uguale a tante altre, lo stesso puzzo di vino cattivo e la stessa aria tranquilla, senza flippers e mangiasoldi.

Solo una vecchia tossicodipendenza da vino.

Qui si raccontano episodi, vecchi ma vivi, di scommesse a suon di mezzi quarti, di ubriachi che baciavano le mogli per strada e di gente che cantava “Giulia, ritornai ma non ti trovai”.

Qui di parla anche di politica, ma quel tipo di politica da osteria, che è, come il vino, più schietta e spiritosa, in cui certe storie di tradimenti hanno più importanza di certe “svolte programmatiche” o “verifiche urgenti”.

So così che a Depressa, prima del 1966, nessuno era missino, solo democristiani, qualche socialista e diciassette/diciotto comunisti che tutti si chiedevano chi fossero e che i quattro o cinque veri fascisti degli anni ’30 erano diventati tutti buoni democratici.

Qui conosco “Mesciu Punte” che ha aggiustato tutte le scarpe di Depressa, “però da un po’ di tempo mi fa concorrenza la Filanto”, e che recita anche tante poesie.

In poche ore ho incontrato molta gente, anche più importante e socialmente più in alto, eppure se dovessi scrivere di Depressa comincerei da Carmela. È quasi inavvicinabile: settantanni, occhiali alla Rita Hayworth, capelli bianchi quasi biondi, una voce infantile. Le sono simpatico e mi fa sedere al sole mentre pulisce un po’ di verdura, mi dice che è stata sposata e poi “ha deciso di non sopportare più gli uomini, specie i preti”.

Mi dà una busta di cicorie e mi dice: “Non ti fermare più, però, non posso parlare con i giovanotti, io, sono vedova e ho delle proprietà e poi sto studiando per diventare angela”.

 

“Nuove Opinioni” – Marzo 1982

Alfredo De Giuseppe

 

 

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