149 - Visoni e diete - 2020-12-05

In questi giorni milioni di visoni vengono abbattuti in tutti gli allevamenti del mondo, soprattutto in Danimarca, maggior  esportatore di pellicce di visone. Si ipotizza che saranno uccisi circa 20 milioni di questi animali che raggiungono la lunghezza di 60 centimetri compreso 15 di coda, il cui peso si aggira attorno al chilogrammo. Per noi umani il visone ha una grande colpa: “è ricoperto da pelo folto e dall'aspetto sericeo (dovuto alle sostanze oleose che lo rendono impermeabile), di colore generalmente uniforme bruno o nerastro”. Insomma ha la sfortuna di avere un bel pelo, che può facilmente diventare una pelliccia, molto spesso ad impreziosire un collo di un cappotto o di una giacca.

Si sono viste scene raccapriccianti con le ruspe che prendevano questi animaletti (uccisi chissà come) e seppelliti in enormi fosse comuni. I visoni, rinchiusi in minuscole gabbie, dentro allevamenti grandiosi con centinaia di migliaia di esemplari hanno avuto un’ulteriore colpa: hanno contratto il Covid come il nostro, però in alcuni di loro era stata riscontrata una versione mutata del virus. Oltretutto queste piccole bestioline, di tanto in tanto, riuscivano a sfuggire da questi infernali allevamenti intensivi e avrebbero rischiato di infettare altri animali selvatici. Con conseguenze disastrose per intere specie animali e forse di nuovo per l’uomo che avrebbe mangiato, magari involontariamente, carne infetta. Insomma si è scelto il male minore: l’abbattimento generalizzato di tutti i visoni.

Questa storia di stringente attualità non ci può fare dimenticare quanta brutalità usiamo quotidianamente nella gestione di tutti gli allevamenti intensivi di molti animali destinati solo alla macellazione. Animali prigionieri, dentro spazi ridotti al minimo vitale, spesso tenuti in vita solo da massicce dosi di antibiotici, che a loro volta vengono portati sulla nostra tavola come indispensabili alla nostra dieta proteica. Se il fabbisogno è cresciuto enormemente negli ultimi decenni, il marketing ha giocato molto sulle parole, sul suo vero significato. Quando si dice ad esempio “pollo allevato a terra” non significa che vive libero in un prato, a scorrazzare come vuole, ma semplicemente indica un luogo, un capannone con mega allevamento dove i polli non sono sospesi in aria dentro minuscole gabbie, ma vivono a contatto del pavimento, ma sempre dentro minuscole gabbie. Secondo uno studio di “AnimalEquality” in Italia si riducono sempre più i piccoli allevamenti di maiali, aumentano quelli intensivi (il 90% dei suini italiani è rinchiuso nel 10% di allevamenti con più di 500 capi), diminuiscono i costi di produzione e quindi tutti possiamo permetterci di mangiare il prosciutto, crudo o cotto che sia. Non teniamo però mai conto che “le deiezioni dei maiali, elevatissime, altamente inquinanti perché ricche di azoto, fosforo e potassio, e inadatte come fertilizzante, rappresentano un rifiuto da smaltire: finiscono nei campi, che non riescono ad assorbirle a sufficienza, nei corsi d’acqua e nell’aria, con una pericolosa dispersione di metano, CO2 e altre sostanze”. Sempre secondo studi accreditati è stato accertato che l'intero settore dei trasporti mondiale produce solo il 13% dei gas ad effetto serra attuali, mentre agli allevamenti intensivi è imputabile una percentuale pari al 18%. In più, oltre alla CO2 ed al metano, gli allevamenti intensivi sono responsabili del 65% di tutte le emissioni di ossido di azoto prodotte dall'uomo – un gas serra con 296 volte il potenziale di riscaldamento globale dell'anidride carbonica e che rimane nell'atmosfera per oltre 150 anni.

Insomma noi umani, con la nostra attuale dieta, che ci rende obesi e malati, distruggiamo anche il pianeta. Non solo andiamo a caccia per sport, non solo torturiamo milioni di animali per fare un cappotto o una borsa, ma contribuiamo in modo massiccio all’insostenibilità ambientale con il cibo che abbiamo scelto di privilegiare. Non mi sembra che nelle migliaia di pagine scritte ogni giorno sul Covid, alle milioni di esternazioni di pessimismo al mattino e ottimismo la sera, ci sia stato in questi mesi un vero dibattito sui nostri stili di vita. L’unico dibattito serio si è fondato sul nostro uscire o rimanere in casa: tutto il resto non conta, come se il Pianeta possa sopportare una specie come la nostra che distrugge con sempre maggiore irruenza ciò che lo circonda. Il WWF in queste stesse settimane ha lanciato un appello, passato naturalmente inosservato: nell’ultimo secolo, da quando abbiamo una memoria fotografica e documentaristica, abbiamo perso circa il 68% di mammiferi, anfibi, rettili e uccelli. E se anche le api smettessero di impollinare e sparissero le piante che ci danno nutrimento e ossigeno? Si tratta purtroppo di un effetto domino, che abbiamo innescato da decenni e che dobbiamo assolutamente fermare. Ora. Vivere in armonia con il Pianeta, rispettarne le creature proprio come rispettiamo noi stessi non è un sacrificio, è uno stile di vita.

Credo che nel nostro piccolo ognuno di noi possa fare qualcosa di concreto: posso non usare il fucile per sparare ad un uccello che non sia per stretta necessità di sopravvivenza; posso non indossare un capo d’abbigliamento in qualche modo collegato ad animali tenuti in cattività; posso ridurre a meno della metà il consumo di carne e insaccati (e ingrasserò lo stesso); posso non usare oggetti di plastica monouso; posso non infliggere torture involontarie ad animali domestici (magari lasciandoli liberi); posso destinare un po’ del mio tempo a proteggere la natura; posso infine avere uno strazio empatico con ogni cosa che mi circonda, sentire il respiro, la voglia di vivere di ogni essere vivente. Immagino di far vivere questo stupendo pianeta al di là della nostra stessa, breve, spietata esistenza.

la mia colonna - il Volantino, 5 dicembre 2020

Alfredo De Giuseppe

 

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