060 - Un paese, quattro campi sportivi- 2018-11-10

 

Tricase oltre ad avere 4 o 5 castelli, 4 assessori e 4 cimiteri, ha anche 4 quattro campi sportivi. Il primo, quello di zona Matine, nacque nel 1964 insieme alla nuova società di calcio, la U.S. Tricase che faceva finalmente entrare il paese nel mondo del calcio agonistico organizzato. Una società composta da professionisti, banchieri, commercianti e politici che quasi si sovrapponeva all’Amministrazione Comunale. Non fu difficile e neanche costoso costruire quel campo di calcio: il terreno fu donato da Vittorio Aymone, il Comune approvò senza neanche un progetto ben definito, la ditta Battocchio lo realizzò in pochi mesi al costo di meno di 4 milioni delle vecchie lire. Peccato che non fu possibile acquistare l’ultimo pezzo di terreno per rendere quella struttura davvero funzionale e in regola: dalla parte est c’era (e c’è) meno di un metro dal muro perimetrale; fa un po’ sorridere pensando a quanto terreno libero ci fosse all’epoca, ma così venne fuori quando presero le misure e così è rimasto.

In ogni caso erano tutti felici: finalmente non si giocava più sul tufo di Piazza Cappuccini, c’era un bel campo con la biglietteria, le tracce sempre perfette e la sansa di olive (nera e profumata) a renderlo più soffice. Il Tricase vinse facilmente i campionati minori e già nel 1968 si pensò ad un nuovo Stadio, più bello, più capiente e regolare: quello di via Matine era già vecchio e così sarà denominato per sempre, il Campo vecchio. Il nuovo prevedeva la pista d’atletica, e i campi da tennis, insomma doveva essere il definitivo salto nella modernità, nel pieno risorgimento collettivo, nella consapevolezza dell’importanza dello sport. Fu acquisita con vari espropri un’area denominata “Aia”, posta fra Lucugnano e Tutino, distante pochi centinaia di metri dal vecchio campo sportivo. La scelta si rivelò da subito infelice: non c’erano strade e parcheggi e soprattutto era in una posizione elevata. Nelle giornate ventose sembrava essere su una barca a vela, il pallone non si fermava mai. Dopo vari rinvii, fu inaugurato nel maggio 1980, nell’ultima partita di campionato contro il Copertino, ancora in terra battuta.

Alla ripresa del campionato si giocarono due partite, poi una fu sospesa per il vento e si decise di raccogliere tutti gli attrezzi e tornare al vecchio. Si pensò inoltre di abbassare il terreno di gioco e la pista di circa un metro, con un costo elevato e certamente inutile. Fu definitivamente utilizzato, completo di erbetta e pista rossa (fuori norma) a partire dal campionato 1992, venticinque anni dopo gli inizi dei lavori. Dopo essere rimasto senza nome fu poi, con la solita pomposità, intitolato a San Vito, che qualcuno pensò di avvicinare a San Siro. Nel frattempo, nel 1970, si era costruito il campo sportivo di Lucugnano, ad appena 300 metri in linea d’aria dal San Vito, ma almeno anche la frazione poteva immaginare un suo romanzo sportivo con una squadra tutta autoctona. La frazione di Depressa non poteva stare a guardare, nel 1971 pretese e ottenne il suo campo sportivo: la voglia di calcio giocato si era propagata a tutti i livelli e sotto ogni parrocchia.

A distanza di alcuni decenni, la situazione è alquanto complessa e paradigmatica delle modalità di approccio, progettazione e manutenzione delle opere pubbliche nei Comuni del Sud Italia. Questi 4 campi sportivi sembrano fatti in fotocopia: alte e bruttissime mura esterne, idea della protezione e della sicurezza che cozza con la realtà; gli spogliatoi sempre inadeguati, insufficienti e cadenti; visione della partita resa difficoltosa e fastidiosa da reti metalliche, fili spinati e paletti di recinzione da zoo. Oggi sono praticamente tutti e quattro inagibili: Lucugnano e Depressa chiusi; il campo vecchio utilizzato a malapena per alcune partite di Amatori e Giovanili; il nuovo, il San Vito con l’erba sempre meno verde, ha una tribuna che sta per cadere, una pista con le voragini e gli spogliatoi con muffe e umidità stratificata. Alcune delle pecche progettuali sono diventati macigni insostenibili e nessuno sa come uscirne.

Da anni affermo che l’assenza di un Piano Regolatore è stata una tragedia per il paese: magari avremmo potuto immaginare uno spazio (una cittadella) per gli sport, tutti raccolti in unico complesso, architettonicamente sufficiente, funzionale sulle lunghe prospettive, adeguato alla popolazione residente e davvero interessante per chi volesse fare dello sport. E non solo calcio, ma anche basket, rugby, pallavolo e pallamano, di cui c’è grande richiesta. Le manchevolezze, le visioni eccessivamente campanilistiche della vecchia politica si sono sommate alle bugie, alle chiacchiere della nuova: manca il coraggio di abbattere l’inutile e rendere un vero servizio alla comunità, che sarebbe quello di progettare il futuro. Parole ormai vuote, destinate al vento.

La mia colonna - il Volantino, 10 novembre 2018

Alfredo De Giuseppe

 

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