2010-01 "PD: perché sono entrato, perché sono uscito" - Il Volantino

Dopo l’esperienza  del PES, la presentazione alla consultazione comunale del 2008,  sembrava fosse giunto il momento di iniziare un nuovo percorso all’interno di un partito nazionale, che avesse le sue regole e la sua organizzazione. Comunicai questa mia decisione a tutti gli amici del movimento, ma non si parlò mai di una confluenza ma di scelte personali.  E così fu: all’inizio di luglio 2009, data ultima per partecipare ai congressi elettivi del partito, mi iscrissi al PD. Lo stesso fecero un consistente gruppo di amici, altri rimasero su posizioni diverse. Il movimento appena nato si connota per il suo entusiasmo disomogeneo, dove tutti si avvicinano su una base puramente emotiva, su una rabbia di voler fare, poi emergono le differenze e le difficoltà di un’azione coordinata. A me sembrò che entrare nel PD fosse l’unico modo per ritornare alla Politica, poter discutere di problemi amministrativi su una base molto più larga, iniziare un’azione di contrasto al populismo dilagante con azioni mirate e interessanti per gli elettori. Mi sembrava che entrare nel partito, specie in prossimità di un congresso, potesse rimescolare le carte e ricominciare la battaglia politica in un modo più coerente, più sobrio, ma anche più incisivo. Pensavo anche che l’ingresso nel partito di un consistente numero di elettori di centro sinistra venisse salutato da tutti come la corretta conclusione di una stagione troppo lunga di divisioni, contrasti e sconfitte. Era arrivato il momento di costruire, discutere, riappropriarsi della propria città, anche a costo di qualche piccolo passo indietro. In tutti gli interventi all’interno del partito ho sempre cercato di parlare di questo, di cercare un’unità di intenti, di superare le logiche divisorie per tentare una strada nuova. Con questa logica, in questi mesi, ho vissuto una serie di incombenze elettorali interne: cercare la più ampia condivisione possibile, trascurare le scivolate personalistiche, ragionare su un progetto comune.

Bene, da luglio a oggi abbiamo fatto decine di assemblee, di incontri privati, ma non abbiamo mai discusso del futuro, dei programmi sui quali vogliamo basare il nostro progetto, non abbiamo mai analizzato le misure adottate dal governo della destra, sia nazionale che locale. Mai una parola su Berlusconi né una su Musarò.

Una sequela di incontri basati su posizionamenti interni, con voti per pletoriche assemblee nazionali, regionali, provinciali. Tutti organi vissuti come conta di maggioranze e minoranze, ma senza alcun potere decisionale sulle scelte del partito. Anche a livello comunale ho tentato di contribuire alla creazione di un organo direzionale veramente aperto, e che con snellezza potesse davvero creare le premesse per una migliore struttura. Cosa apparsa da subito impossibile con la creazione del circolo di Lucugnano (14 iscritti) e poi quello di Tricase con i loro presidenti e infine del Coordinamento cittadino con il suo segretario e formato da almeno una quarantina di elementi. Insomma l’impossibilità di far funzionare il partito: decisione voluta, cercata e non combattuta da quasi nessuno.

In realtà è un partito che vive sull’esistenza di divisioni interne ben codificate, fra persone che non hanno nessuna stima dell’altro e che si vivono reciprocamente come il vero nemico da abbattere, al più presto. Noi che venivamo dall’esterno e comunque senza tanti preconcetti ci siamo ritrovati, nonostante tanti discorsi alternativi, a dover fare i conti con questa continua disputa, che non diventa mai dialettica, ma anzi diaspora dirompente.

Questo modo di procedere ha toccato il suo apice, il vero corto circuito, al momento della scelta del candidato presidente alle prossime regionali. Vi risparmio il ben noto riepilogo di tutto ciò che è successo, ma ancora una volta i vertici (specie regionali e provinciali) cambiavano opinione, senza alcuna vergogna, a seconda delle loro esigenze personali, mentre in periferia si consumavano i soliti rancori, le solite rivincite, le solite insinuazioni. Per una notte ho tentato di tener duro e cercare di capire le ragioni del partito, poi seguendo anche l’indicazione di tutti gli amici, non ce l’ho fatta più: sono andato a votare Vendola, sancendo in definitiva la rottura con il PD, con tutte quelle ragioni per le quali aveva senso essere un tesserato. Forse, in definitiva, non è colpa di nessuno, è semplicemente un progetto nato male, digerito peggio e gestito con la testa rivolta al passato. Ho provato dall’interno, ho voluto vedere e per adesso è abbastanza.

Esco subito dal PD per non fare e farmi danno: la politica è una cosa da affrontare ogni giorno con una certa coerenza, non è una guerra fra bande armate, né può essere solo la base di affermazioni personalistiche, non può ridursi al vuoto ideale per i rigurgiti ancora presenti di due vecchi partiti, poi divisi in altre sottofazioni, e poi degenerate sul senso di potere assoluto.

Lascio la tessera del PD, non posso lasciare la politica, perché la Politica è il sale della nostra vita civica, perché fare politica significa spogliarsi un po’ di sé e dedicarsi al bene comune, immaginare e progettare il futuro con gli altri e infine sopravvivere.

Il Volantino - Gennaio 2010

Alfredo De Giuseppe

 

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