2016-04 "Il PD e la Nazione" - 39° Parallelo

Scrivere in sintesi la storia del PD degli ultimi cinque anni è come fare un compendio delle assurdità politiche dell’Italia, della difficoltà del nostro Paese di uscire da una serie di vizi atavici che vanno dal familismo alla corruzione per arrivare più modestamente alla trasposizione macchiettistica del potere. Tralasciando gli anni e la genesi del nuovo partito, partiamo dal 2011. In quell’anno Berlusconi e il suo governo si rendono inguardabili agli occhi del mondo intero. I capi di Stato tentano di evitare anche le foto con l’uomo più ridicolo, ingombrante e corrotto che si possa immaginare al governo di una nazione moderna. Tanto è negativa la sua immagine che si sovrappone facilmente alle endemiche difficoltà italiane, debito pubblico e cattiva amministrazione in primis, e quindi con la perdita di credibilità porta l’Italia verso il baratro di una crisi irreversibile. Alcuni dei suoi parlamentari, dopo aver accettato di tutto, compreso la nipote di Mubarak, cominciano ad abbandonarlo, non ha più la maggioranza in Parlamento. Ragione vorrebbe che si vada alle elezioni, immediatamente, anche per cancellare definitivamente l’ultimo devastante ventennio. Invece il PD supinamente accetta l’invito del Presidente Napolitano di formare un governo di unità nazionale con dentro tutti, tranne la Lega. Il PD decide di non vincere le elezioni, di governare insieme al solito “regista” Berlusconi appoggiando il governo tecnico Monti con tutte le riforme economiche a cominciare dalla Fornero e dal Fiscal compact che portano il Paese immediatamente in recessione. La malattia è curata ma il malato è morto. Il PD non può affermare che Monti sia stato un disastro mentre tutti gli altri, a cominciare da Zelig Berlusca, lo rinnegano, lo insultano e lo mettono in un angolino. Il PD intanto come sempre, pensa a regolare le questioni interne: va alle primarie e Bersani stravince su Renzi, visto dai compagni come il superdemocristiano intrufolato per opportunismo dentro le fila del partito più democratico che c’è. Si va alle elezioni del 2013: finalmente Napolitano accetta che questo paese possa anche votare. Il PD di Bersani riesce nell’impresa davvero complicata di farsi rimontare di nuovo da Berlusconi e di farsi raggiungere dal Movimento di Grillo. Un pareggio a tre con un piccolo vantaggio per il PD. Un vantaggio che grazie alla legge porcata voluta dalle destre nel 2006 gli dà un grande vantaggio alla Camera e una minoranza al Senato. Si deve eleggere il nuovo Presidente della Repubblica: dopo vari tentativi il PD propone il nome di Prodi, che viene accettato anche da SEL e altre formazioni, con la forte avversione del proprietario di Mediaset che vede nel bonario bolognese l’unico vero avversario della sua vita. Puntualmente il PD gli corre in soccorso, ben 101 suoi parlamentari non votano Prodi, il quale ritira immediatamente e dignitosamente la sua disponibilità. Tutti sono convinti, le destre miracolate soprattutto, che deve essere rivotato Napolitano, il quale accetta alla sola e solita condizione che si faccia la riforma dell’indegna e antidemocratica legge elettorale con il coinvolgimento di tutti, anche di quelli che la legge l’avevano fortemente e fascistamente voluta. Napolitano si guarda bene dall’affidare la formazione del nuovo governo a Bersani, che in definitiva potrebbe essere appoggiato anche dai 5Stelle e nella logica d’ammucchiata viene chiamato Enrico Letta che governa con i berluscones. Nel frattempo il PD ha affidato la segreteria all’ex sindacalista Epifani chiamato a fungere da tampone fino all’elezione del nuovo segretario. Bersani si sente sconfitto, i suoi vacillano e sono pronti, quasi tutti ad adeguarsi alla modernità, ad appoggiare il giovane rottamatore Renzi. Il quale, divenuto segretario a furor di popolo, non vede l’ora di governare l’Italia, insieme ad un manipolo di giovani amici, spesso belli e arroganti. Senza alcuna grazia, fa fuori Letta che nel frattempo era stato abbandonato da Berlusconi perché non l’aveva salvato da uno dei tanti processi in corso. Renzi, tanto per continuare il guazzabuglio degli anni precedenti, appena insediatosi premier, chiede alo stesso Berlusconi di dargli una mano a fare le riforme costituzionali. Come primo atto da rottamatore non c’è male: riabilita un condannato in perenne conflitto d’interessi (soprattutto mediatico e culturale) e ridà centralità ad una destra ormai in disarmo e divisa. Ancora una volta l’ex-cavaliere (che aborra qualsiasi norma decente) si sfilerà poi dalle riforme e lascerà il PD alle sue contraddizioni. Il suo segretario-primo ministro fa accordi palesi e sottobanco con chiunque, anche con Verdini e Co., ex-dominus del Popolo delle Libertà, mentre la sinistra del PD rilascia solo interviste interessanti, molti abbandonano il partito per fondare nuovi improbabili movimenti. Il Pd non è mai d’accordo con sé stesso: vince Roma con Marino e poi lo fa fuori; le riforme costituzionali sembrano stiracchiate su posizioni poco progressiste, direi quasi massoniche; sulla riforma del lavoro non sanno come prendere le norme volute dalla destra mondiale; sulle Unioni Civili, ritenute indispensabili dall’Europa, litigano fra di loro cattolici di sinistra e omosessuali cattolici; su ogni norma, delega, decreto il PD si spacca, si frantuma, non sa chi è, non sa quale progetto sta portando avanti. Il massimo della confusione schizofrenica lo tocca con il referendum sulle trivellazioni petrolifere volute dal governo targato PD: le Regioni governate dal PD chiedono la consultazione popolare e il PD centrale come via d’uscita chiede di non andare a votare. Siamo alla fine della politica del territorio, tanto sbandierata da tutti, alla fine di ogni sogno, utopia, onestà intellettuale e coerenza. Siamo nella casa del PD, in questo caso il vero partito della Nazione, nel senso più deleterio del termine, quello che vuole solo il potere, sempre contiguo al malaffare, alla corruzione e anche al teatro dell’assurdo. Il Pd in definitiva rappresenta tutti i vizi e le poche virtù dell’Italia di oggi, di ieri e forse di sempre: dobbiamo arrangiarci, vivere alla giornata, tenerci tutto, finché tira, fino allo sfinimento, fino all’abbandono del campo con relativa fuga disperata verso l’ignoto.

39° Parallelo – Aprile 2016

Alfredo De Giuseppe

 

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