2002-04 "Solita ficarigna" - Nuove Opinioni

Venerdì 5 aprile ero alla prima del cortometraggio di Sophie Chiarello, “Ficarigna”, al Cinema Moderno, insieme a tanti Sindaci.

Sophie è una giovane collaboratrice del già famoso Edoardo Winspeare, qui in veste di produttore. La corrente di pensiero comunque mi è sembrata abbastanza simile: colori mediterranei, musica come colonna sonora delle esistenze, dialetto come veicolo espressivo, simbolo della veridicità della storia. Al di là della personale simpatia per Winspeare e per tutto il suo movimento etnico, devo dire che è già giunto il momento di voltare pagina. Il film, nei suoi tredici minuti, è riuscito infatti a ricollocare nei soliti luoghi i soliti luoghi comuni (renault 4 compresa), che se accennati una volta piacciono, ma ripetuti all’infinito faranno di tutto questo un cinema d’essai tricasino o al massimo del Capo di Leuca. Possibile, ad esempio, che in tutti questi film ci siano pomodori appesi, donne che pensano alla dote,  nonni che lavorano la terra, uomini che tornano a casa solo per mangiare, giovani un po’ insulsi con uno strumento in mano? Almodovar traccia delle bellissime storie, facendo sentire il suo essere spagnolo senza bisogno di far parlare o ballare ogni volta un ballerino di flamenco. Qui da noi non  esistono storie veramente allineate con il tempo che viviamo? Le nostre famiglie sono davvero così? E se invece è solo un’espressione artistica (o nostalgica) dov’è la necessità di questo dialetto o è solo una furba scorciatoia?

Insomma da una ragazza che ha dimostrato talento nelle riprese e nella scelta delle musiche (certamente la cosa migliore del film) e che parla correttamente un perfetto italiano con unico accento francese (sua patria d’origine) mi sarei  aspettato un’evoluzione del prodotto-film-salento in senso meno provinciale. Invece, sinceramente, mi è sembrato un passo indietro rispetto a “Sangue vivo”, con un montaggio non sempre felice. Sarà forse una mia incapacità di cogliere certe sottigliezze ma non ho capito perché uno che ritorni al paese dopo otto anni e tanta autostrada scenda dall’auto lontanissimo dal paese e che venga accolto dalla propria famiglia (o non era la sua?) come se fosse tornato dalla scampagnata di pasquetta e perché mai rivedendo una vecchia fiamma le debba chiedere del suo futuro sposo “Lo ami?”. Nè mi ha convinto il finale, un pò stiracchiato.  Errori di gioventù e forse dei tempi dettati dal corto, ma forse anche la difficoltà di uscire da un cliché, da una visione troppo oleografica del Salento.

Per le prossime sceneggiature suggerisco alcune varianti:

la ragazza che lavora in un calzaturificio; le donne in casa che guardano in Tv i programmi del pomeriggio in cui si litiga in diretta;  i nonni che sono pensionati delle Poste; un protagonista che non sia un musicista etnico; un ragazzo che si veste e si muove come tutti i suoi coetanei d’Italia, qualche studente di tanto in tanto e forse qualche apparecchio moderno che dimostri che anche qui, oltre a saper fare la salsa, è arrivato il telefono e la corrente elettrica (insomma trovate una storia bella nel nostro normale spazio quotidiano). Un’ultima cosa che da anni vorrei vedere al cinema: le nostre feste: due sventurati suonano, due ubriachi ballano, tre ragazzini corrono e tutti gli altri, marito e moglie sottobraccio, guardano senza gioia e senza partecipazione e al primo venticello rientrano a casa, assolto il dovere di andare alla festa (tutto l’opposto del film dove invece, nelle scene finali, tutti ballano, ridono, si ubriacano e ascoltano una musica nuova con la gioia dell’intenditore).

Per il mio personale Oscar (di cui certamente non importa niente a nessuno) aspetto un cinema che ci racconti con un po’ di verità e di autoironia, con la voglia dissacratoria e un po’ blasfema di “sollevare le gonne alle suore” (per dirla alla Bunuel), seppur con un pizzico di piacere di appartenere al mondo di tutti. 

Nuove Opinioni - Aprile 2002

Alfredo De Giuseppe

 

 

 

 

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